La versione Panofsky – “Voglio vederti danzare”
Nell’estate del 2012 mi dirigevo ad un concerto di Bon Iver a Ferrara. Non ero sola e sedevo sul sedile posteriore di una macchina di quelli che per me, ore prima di questo “road trip”, erano due perfetti sconosciuti. Solite chiacchiere ammazza-chilometri, le nostre e una domanda a me rivolta: “Ci hanno detto che sei una bibliofila. Cosa trovi nei libri, da leggerli con tanto accanimento?”
Una risposta scompaginata, la mia: “Nei libri riesco a sentire la musica“.
Da questo mio modo di respirare quello che mi circonda nasce l’idea di tenere una sorta di rubrica per Memorie Urbane. Che poi a chiamarla così ci metto fatica e fiato: preferisco definirla lente di ingrandimento.
“Perché?”, vi chiederete?
Perché mi sono data l’obiettivo di cavare dalle opere di Memorie Urbane 2014 un suono che permetta ai sentimenti di vibrare in base alla tonalità di colore da trasmettere a tutti quelli che ne avranno voglia. E poi magari la mia allucinazione contagerà anche la vostra, alla quale darete le vostre personali note e sceglierete la vostra sinfonia.
Il mio faro guida è un verso di Cesare Pavese: “Sono vivo e ho sorpreso nell’alba le stelle“.
Provate a pensarlo: come vi sentireste di fronte ad un timido sole che spunta in una marea di stelle?
Ci riuscite?
Una vostra risposta affermativa vi assicura la chiave (di violino, giusto per restare in tema musicale) per calarvi in un non luogo di pura immaginazione.
La prima settimana di questa terza edizione è stata frenetica, dall’inerzia si è passati al frastuono.
Giovedì si è tenuta la serata “inaugurale” a Radio Bottega, una sorta di isola che non c’è delle arti. Al suo interno dovunque ti giri, puoi osservare opere di Borondo, Millo, e tanti altri. E tutti gli artisti del festival lasceranno probabilmente un nuovo segno lì.
Mentre mi ritrovavo con il mio bicchiere di vino in mano pensavo a quanto è strano vedere come alla luce di un mondo così legato alla comunicazione telematica, ci sia ancora la voglia di stare insieme a bere una birra, per commentare i nuovi lavori in strada, sentendosi curiosi all’idea di vedere di persona i tre artisti spagnoli appena sbarcati a Gaeta per iniziare i loro muri. Ritrovarseli davanti con la voglia di chiedergli mille cose, decidendo però di aspettare e di lasciare che siano le opere a parlare per loro. E’ incredibile vedere come questo festival in due soli anni si sia espanso come il gas in un palloncino e sia cresciuto sempre di più, senza il rischio di scoppiare perché trova in ogni persona che si avvicina alla manifestazione nuove idee e nuovi spazi di lavoro.
Ora che ho provato a sviscerare la mia idea su questa manifestazione, vorrei provare a regalarvi la mia immaginazione delle prime opere sui muri di Gaeta.
Sono passata di tardo pomeriggio e, neanche avessi fatto uno scontro frontale, mi sono inchiodata di fronte al primo lavoro che ho visto, plasmato come creta da E1000 e Pablo Herrero. Arrivavo a piedi, affaticata da una piccola salita ed ho visto alberi, alberi e ancora alberi, di diverso colore e tonalità che vanno dal nero al fucsia. Al centro di questa opera, dove i muri di cemento fanno angolo, si propagava un piccolo cerchio di luce, in un intricato miscuglio di quelli che per me sono dei rovi.
Sapete cosa ho pensato nel momento esatto in cui i miei occhi si sono fermati sull’opera?
Tutto attorno il vento tirava abbastanza deciso e gli alberi dell’ecosistema reale che circonda il tessuto cittadino erano intenti a muoversi. Così ho ricamato l’idea che anche gli alberi sul muro stessero seguendo con la loro posizione il verso del vento, dandosi una vita da soli.
Quello che ho fatto è stato dare subito a quest’opera un suono. Ho ribattezzato il muro Voglio vederti danzare, per la musicalità che emanava. Ed a quel sole, o punto di luce come si voglia definirlo, ho dato un ruolo: il re del mondo che ci tiene prigioniero il cuore, sulle note di Franco Battiato.
Quel cerchio di una luminosità pacata può essere caldo davvero. Basta solo che la vostra immaginazione lo voglia.
Il secondo muro è invece di David De La Mano. Un enorme globo terrestre o un girone infernale chissà, all’interno del quale galleggiano soggetti a metà tra esseri umani, homunculus, creature mitologiche. Dei piccoli minotauri o magari dei diavoli muniti di corna, tutti uniti tra loro da radici sottilissime. Aggrappati a quelli che sembrano dei lunghissimi trampoli, in cammino o coinvolti in una danza apotropaica, questi soggetti sembrano armonizzare il loro rituale con le musica e con i versi di Vinicio Capossela: “… ho il ballo di S. Vito e non mi passa…“.
Più che ad un lavoro di street art sembrerebbe di avere davanti un disegno rupestre. David de La Mano potrebbe fare le veci di un uomo di Neanderthal immerso all’interno di una caverna intento a tramandare un enorme enigma da decifrare: il testimone di un passato ancestrale.