Guido Bisagni, in arte 108, è una vecchia conoscenza di Memorie Urbane. Nato ad Alessandria, dove tutt’oggi vive e lavora, nel 1978, ha partecipato al festival nel 2015 realizzando interventi a Gaeta sui muri della Pinacoteca di Arte Contemporanea e del Cimitero, quest’ultimo dedicato alla memoria di Ian Curtis, frontman dei Joy Division. La musica e l’influenza della stessa nel suo percorso artistico sono state al centro della nostra chiacchierata di ieri a Fondi, mentre dipingeva la torretta dell’Enel di Via Antonio Fusinato.

La tua è una carriera lunga e di grande successo. Raccontaci come è iniziata e quando.
Disegnavo sin da bambino, senza schemi. Ero uno skater e mi sono avvicinato al mondo dei graffiti, scoperti in Svizzera a casa di mio zio e a Milano, quando avevo 14 anni. Di lì ho iniziato a con le prime tag durante il periodo del liceo ad Alessandria, successivamente mi sono trasferito a Milano per studiare Disegno Industriale al Politecnico. Era un periodo di grande fermento per i graffiti in Europa, in particolare in Svezia e a Parigi dove Stak e Honet erano alla guida di una rivoluzione concettuale che stava trasformando il modo di disegnare, distaccandosi dai graffiti classici per approdare a un lavoro di ricerca più accurato e profondo. Contestualmente l’avvento di Internet aveva permesso l’instaurarsi di connessioni dirette tra gli artisti, all’epoca una ventina nel Vecchio Continente, e una diffusione molto più rapida delle nuove tendenze. È proprio in quel momento che decido di abbandonare il mio vecchio nome, Four, in favore di quello attuale. All’università seguivo corsi di Comunicazione Visiva e Astrattismo, che mi avevano avvicinato alle avanguardie del Novecento. Se prima prediligevo l’arte figurativa, in seguito l’incontro e lo studio di Arp, Malevich e Kandinsky mi ha segnato sensibilmente. Lo Spirituale nell’Arte, dello stesso Kandinsky, ha portato ad una svolta. Loro tre rappresentano, per semplificare un pochino, le grandi influenze storiche della mia carriera, delle presenze che in un modo in un altro mi accompagnano sempre. Decido in quella fase di togliere le lettere per studiare e dedicarmi alle forme. L’idea del numero mi piaceva molto perché era originale, nessuno lo utilizzava infatti all’epoca, e soprattutto mi consentiva di spogliarmi in parte della mia personalità. Il 108 è un numero sacro per molte religioni orientali – per esempio le divinità induiste hanno 108 nomi – ma rivestiva un forte valore simbolico anche nell’antica Grecia, oltre ad essere piuttosto ricorrente nella mia vita.

Le tue opere sono disseminate di riferimenti ad altri linguaggi artistici, penso in particolar modo al cinema, alla letteratura e alla musica. Ci sono dei film, degli scrittori, delle band che ti hanno influenzato maggiormente?
Sono tantissimi, ovviamente, ma possiamo citarne alcuni. Per ciò che riguarda il cinema, sicuramente il Fellini di Giulietta degli Spiriti e Il Casanova, per le ambientazioni, le atmosfere oniriche, le colonne sonore. E ancora, Stalker di Tarkovskij, Cronenberg e Decoder di Klaus Maeck, questi ultimi anche per via del legame con Burroughs e con la musica industrial di gruppi come gli Einstürzende Neubauten. Come scrittori, oltre al già citato William Burroughs del quale preferisco gli scritti più «deliranti», sulla falsariga de Il Pasto Nudo, riveste molta importanza Paradiso e Inferno di Huxley, che mi ha spinto in una certa fase della mia vita artistica a riprendere l’utilizzo dei colori. Sono anche un musicista, ho suonato per moltissimo tempo la chitarra in gruppi hardcore come i Bhopal. Era un po’ il mio genere di riferimento, sono cresciuto ascoltando Minor Threat, Discharge, Negazione, Indigesti, Impact. In seguito mi sono dedicato a due progetti sperimentali: Larva 108, con il quale ho inciso molti brani tra il noise e il minimal con Fastracker, e CORPOPARASSITA, di chiaro stampo industrial, dove invece, insieme a Diego, utilizziamo il computer, effetti, oggetti di vario tipo.

In quale contesto ti trovi maggiormente a tuo agio per produrre?
Il mio obiettivo è sempre stato quello di disegnare qualcosa per colpire le persone, anche cose che non capissero, non necessariamente per trasmettere un messaggio. Amo la strada, il momento in cui esco di casa, scelgo il posto, produco qualcosa che andrà a riflettere sia la storia del luogo che la mia. A livello pittorico, inoltre, preferisco il muro per via delle texture, in particolar modo quelle post industriali, logore, con un vissuto importante. Per questo stesso motivo preparo le mie tele prima di dipingere, rovinandole. Ho iniziato a lavorare in studio quando mi hanno chiesto di partecipare a delle esposizioni, la prima a Leeds nel 2003. È stato un processo evolutivo naturale, nonché un traguardo personale e professionale. Di lì ho iniziato a viaggiare molto, ricordo in particolare Nusign 2.4, prima grande mostra di street art europea organizzata a Parigi da Piero Preitano de L’Araignée e Stak, con una maggiore attenzione verso l’arte contemporanea e le illustrazioni. Utilizzavo principalmente installazioni, poster e legno. Poi ho cominciato a dipingere su tela, fino alla prima personale a Milano, nel 2007, presso l’Air Studio – Limited No Art Gallery. Dal 2015 lavoro in pianta stabile con la galleria meneghina di arte contemporanea di Antonio Colombo. Questo cambio di media e superficie è stato di grande stimolo, lo vivo ancora come una sfida perché ti porta a confrontarti con tutta la storia dell’arte.

Come sei entrato in contatto con Memorie Urbane?
Sono stato invitato da Davide qualche anno fa ed è stato emozionante dipingere sul muro della Pinacoteca poco dopo la mostra di Alberto Burri. Il festival era già famoso, oggi lo è ancora di più, e sono felice di essere tornato perché amo molto questi posti e conosci gente simpatica e interessante.

Alcune sue opere sono inoltre disponibili sul sito della nostra galleria Street Art Place.

Articolo di Andrea Polidoro. Foto di Flavia Fiengo.