I preamboli lo sapete mi piacciono. Amo aprire la porta a chi mi legge e dirgli “Entra, ti preparo un caffè e ne parliamo”.
Sono sempre molto lunga e non riesco a farne a meno. Dire le cose in maniera scarna non fa per me, preferisco i dettagli.
Ho perso il filo, saltato un turno con il mio appuntamento settimanale, però cerco di riprendere il bandolo della matassa.
Ci provo. Dov’ero?
Mi ero fermata a Latina, da Aus Galerie, per il solo show di Aloha Oe, che ha scatenato in me una vera e propria crisi. Ho avuto modo di parlare con lui durante una soleggiata mattina e ho ottenuto la possibilità di bombardarlo di domande, alle quali ha risposto in maniera piuttosto decisa. “Uno con le palle” mi sono detta.
I suoi lavori sono forti, offendono il perbenismo e la mediocrità, il bigottismo e il fare da bravi chierichetti, senza paura alcuna.
Soggetti con occhi celati, come per nascondersi per il timore dell’essere riconosciuti, ma paradossalmente molto più visibili e coraggiosi rispetto a chi osserva. Il timore non è di chi si copre il viso ma di chi guarda in quel gesto qualcosa di non convenzionale.
Aloha mi ha parlato del suo impegno, della sua volontà di rappresentare tutto il sommerso, quel microcosmo di persone che vogliono essere accettate per come sono, e non stiamo parlando solo di gusti sessuali, ma di un vera e propria esistenza umana.
Quando ho visto la sua pensilina per InAttesa ho cercato qualcosa in più ed ho ritrovato “Lei”: Divine, la diva volutamente “antieroe” della pellicola Pink Flamingos. Credevo di aver visto solo io quel film, di averlo giudicato eccessivo ma allo stesso tempo essenziale, opera che non consiglierei a stomaco deboli, e che anche io non rivedrei, ma che nonostante tutto ha un pezzo di me. Il più eccentrico.
Divine come versione allucinante e scabrosa del “i would prefer not to” del Bartleby melvilliano.
Ho intitolato il mio racconto Lei non solo per dare omaggio al personaggio di Aloha ma anche per parlare delle creature femminili di Eime. Una a Terracina, una a Gaeta simili e diverse. Questo artista lo conoscevo: “Sarà facile dire qualcosa sul suo lavoro. In fondo sono dei volti” mi ero detta.
Poi è arrivato lo sguardo che cercavo. Anni ed anni passati ad adorare una foto, pensando che di più belle non ne esistano: una donna vista di spalle, scruta l’orizzonte. Si abbraccia e viene riabbracciata da altre mani, intorno a lei degli scogli delimitano l’infinito. Le avevo dato un nome: Creature Fear come il brano di Bon Iver, sperando prima o poi di riuscire a dare anche un volto a quella “Didone” della foto di Arno Minkinnen. E poi quello sguardo è arrivato, materializzato nello stencil di questo artista portoghese.
Mentre si spostava su un alto trabattello ed eliminava la carta quel volto veniva fuori, quegli occhi mi dicevano “Eccomi, mi hai trovata. Hai ritrovato te stessa”. Ho riavuto lo stesso vento che scompiglia i capelli, ne ho potuto sentire il profumo. Gli ho chiesto “Che colore è quello che usi?”e lui “Verde agua”, pronunciato in portoghese. Io lo avrei chiamato cromaticamente e musicalmente Blue in Green per un omaggio a Miles Davis.
“Lei non lo guarda. Regala tutti i suoi occhi alle statue e sorrise. Sorride con un sorriso di quelli in cui si scopre che qualche volta la realtà è solo l’angolo giusto da cui guardare il sogno”. Lascio concludere il mio sognante discorrere su Eime a Roberto Cappuccio nel su Fuoco su Napoli.
Aggiungo solo che a stare in mia compagnia, io che sono una fan della pellicola Blow Up di Antonioni e che di conseguenza riesco a seguire partite di tennis immaginarie, si rischia di venire contagiati. Non solo per me da quel cemento colorato si sprigionava musica, Arianna Barone, fotografa di Memorie Urbane ci ha sentito la sua, me ne ha reso partecipe: Casino Royale. Là sopra qualcuno ti ama. Perché Memorie Urbane non è solo muri ma anche cazzeggio, dolcini, caffè e il raccontarsi reciprocamente. Arianna mi ha dato un pezzo della sua sensibilità e io lo regalo voi.
Concludo con le due “Lei” ritratte da Alice Pasquini a Borgo Hermada. Difficile parlare di Alice perché penso che ormai si sia detto di tutto e di più. Due ragazze che si specchiano l’una dell’altra, chissà se per un sentimento di amore o di semplice amicizia. Mi piacerebbe pensare entrambe le cose. Cosa vi posso dire di diverso per cercare di non cadere nella retorica? Mi affido alla frase che mi dice sempre Marco Bucolica (n.d.r. Marco di Bucolica Produzioni): “Lei arriva”. Le persone si riconoscono in quello che fa, i suoi messaggi non sono da decifrare, da stare lì a fare voli pindarici su quello che vuole dire, quello che vuole trasmettere. Lo fa in maniera chiara e diretta. E chi la segue le è riconoscente. La quotidianità come valore aggiunto, e non come abitudine direi io. Anche lei non ha ancora finito il suo lavoro con Memorie Urbane, attendiamo ancora di vederla all’opera in quello che le riesce meglio, con “una dolcezza più disarmante del semplice coraggio” per usare le parole di Gilbert Keith Chesterton.